27.6.06

Non faccio parte dei furfanti

di Massimo Fini - Il Gazzettino 25/06/2006

L'altro ieri l'onorevole Berlusconi, davanti a una platea di suoi fan, ha affermato: «Non credo che possa sentirsi degno di essere italiano chi non voterà sì» al referendum sulle riforme costituzionali. In serata ha poi corretto il tiro dicendo che «è indegno di essere italiano solo chi non va a votare». Per la verità l'esercizio del voto in generale, e tanto più in un referendum, è un diritto e non un dovere del cittadino. In Svizzera, dove di queste consultazioni se ne fanno ad ogni momento, va a votare solo la metà degli aventi diritto, ma nessuno si sognerebbe mai di dire che l'altra metà "è indegna di essere svizzera".
Io non andrò a votare al referendum. Ho perso ogni fiducia nella democrazia rappresentativa che, come ho scritto tante volte, è una forma di feudalesimo mascherato, a pro di oligarchie politiche (leggi partiti) ed economiche.
Queste oligarchie, sotto il manto di una legalità solo apparente, compiono ogni sorta di abusi, di soprusi, di sopraffazioni sul cittadino e non credo proprio che un restyling costituzionale possa cambiare una situazione che è consustanziale ad ogni liberaldemocrazia e che da noi viene aggravata dalla mancanza di quell'etica protestante che in altri Paesi agisce un po' da freno alle peggiori degenerazioni del sistema.
Sono quindi "indegno di essere italiano". E me ne vanto. Sono felice di non far parte di quest'Italia di tangentisti, di rackettari, di mafiosi, di ricattatori, di raccomandati, di clientes, di latrones, di gente che ha rubato e ruba su tutto, sugli ospizi, sui cimiteri, sulle tombe, sulla salute dei cittadini e che è ben rappresentata, simbolicamente, dal suo sia pur defenestrato erede al trono, il principe Vittorio Emanuele che, come del resto aveva già fatto il ministro socialista e repubblicano Gianni De Michelis, taroccava i cosiddetti "aiuti al Terzo mondo" e vi forniva al posto delle medicine dei placebo di "acqua e zucchero". Sono felice di non far parte di questo Paese di furfanti che non si vergognano di essere tali, ma anzi se ne vantano («Sì, raccomando. Le "anime belle" devono rassegnarsi»). Sono felice di non far parte di un Paese di omuncoli, senza dignità e senza onore, che non sono nemmeno capaci di conquistare una ragazza senza ricorrere al ricatto del Potere e dove le donne si vendono con la stessa facilità con cui gli uomini le comprano. Sono felice di non far parte di un Paese dove il più pulito c'ha la rogna e che crede di poter riscattare l'orgoglio e la dignità nazionale perdute con qualche vittoria in quel calcio che peraltro ha ridotto, anch'esso, a una fogna.
Sono convinto che quando gli storici, col distacco che consente la distanza, valuteranno l'attuale Italia democratica la considereranno la peggiore di tutta la sua pur lunga storia (sempre che, dopo, non ne arrivi una ancor più malfamata, il che è sempre possibile).
Peggiore non solo, va da sè, dell'Italia preunitaria, l'Italia dei Comuni e delle Repubbliche marinare, lo straordinario Paese-laboratorio che con l'ascesa delle classi mercantili fiorentine, biellesi, piacentine, diede il via alla Modernità (che poi questa si sia rivelata un boomerang non può essere addebitato a quei precursori), l'Italia delle arti e dei mestieri, di Piero della Francesca, di Paolo Uccello, di Leonardo, di Michelangelo, di Raffaello e dei suoi grandi letterati, di Dante, di Petrarca, di Boccaccio, di Cavalcanti, del Tasso e dell'Ariosto, ma peggiore anche della prima Italia unita, aristocratica ed elitaria dove però un ministro della destra storica si suicidò, non reggendo la vergogna, per essere stato accusato di aver portato via dal suo ufficio un po' di cancelleria (oggi i figli dei lestofanti, dei corruttori e dei corrotti, divenuti "martiri", hanno, come minimo, un posto assicurato in Parlamento), ma peggiore persino dell'Italia del Fascismo che aveva perlomeno in testa un'idea di Nazione che cercò di realizzare con alcune operazioni intelligenti (l'Iri, i primi piani regolatori, le prime leggi di tutela artistica e ambientale, l'attenzione alle "arti nuove", il design e il cinema, per parlare solo di alcuni aspetti), anche se poi fu travolta dalla responsabilità della sconfitta nella guerra. Oggi l'unica idea in testa alle nostre classi dirigenti, di qualsiasi colore politico esse siano, è quella di arricchirsi il più rapidamente possibile a spese dei cittadini.
Sono felice di non far parte di un Paese nel cui Parlamento, luogo sacro della democrazia, ci sono più di 150 pregiudicati o inquisiti. Sono felice di non far parte di un Paese che, da Caporetto in poi passando per Mussolini che fugge travestito da soldato tedesco, per il Re e Badoglio che abbandonano Roma al suo destino, per le orribili lettere di Aldo Moro e finendo con Craxi e oltre, ha una classe dirigente di vigliacchi che cercano sempre, al momento del dunque, di sottrarsi, magari confezionandosi anche qualche legge "ad hoc", alle proprie responsabilità. Italiano sarà lei, onorevole Berlusconi.

25.6.06

Compagno falce e coltello

SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra

La sinistra italiana festeggia la sua cinquecentesima scissione, conquistandosi un posto nel Guinness dei primati. Per l'occasione le Poste emetteranno un francobollo che raffigura uno squilibrato intento a mozzarsi un arto con una roncola.

Con la nascita, a Roma, del Partito comunista dei lavoratori, fondato da Marco Ferrando per conquistare una ragazza, la sinistra italiana festeggia la sua cinquecentesima scissione. L'evento, solenne, è già stato inserito nel Guinness dei primati tra le voci 'l'uomo che ha mangiato più angurie in un'ora' e 'il pettine più lungo del mondo'. Verrà ricordato dalle Poste italiane con l'emissione di un francobollo da 10 centesimi diviso in due parti da 5 centesimi l'una, che si potranno acquistare solo in tabaccherie diverse. Il francobollo raffigura uno squilibrato intento a mozzarsi un arto con una roncola, tra gli applausi di una piccola folla entusiasta. Il simbolo scelto dal nuovo partito (una falce e una lente d'ingrandimento incrociate in campo rosso) va ad aggiungersi a quelli di decine e decine di partiti comunisti e socialisti che affollano festosamente il panorama politico nazionale di ieri e di oggi. Tra quelli in attività e quelli inattivi, ma regolarmente depositati all'ufficio brevetti, abbiamo scelto i più rappresentativi.

Partito Comunista Comunista Nato per difendere rigorosamente l'ortodossia marx-leninista dalle deviazioni già presenti in Marx e Lenin. I suoi 16 iscritti si salutano levando in alto il pugno chiuso che racchiude una falce e un martello. I continui incidenti sugli autobus, e i conseguenti battibecchi con gli altri passeggeri, hanno convinto la direzione del partito a riformare il saluto, consentendo, in presenza di folla, anche la forma ridotta: pugno chiuso senza falce e martello, però cantando per intero l'inno ufficiale 'Bandiera rossa rossa'. Per fare proselitismo, i militanti citofonano alle sei di mattina della domenica agli inquilini di interi isolati leggendo il carteggio tra Marx e Engels. Si riconoscono dal caratteristico elmo dei pompieri, indossato per neutralizzare il lancio di getti d'acqua e vasi di basilico dalle finestre.


Partito di Unità Scissionista È stato fondato in esilio dai fratelli Ulrico e Manrico Barbarossa, all'insaputa l'uno dell'altro, nel 1933, con il proposito di federare tutti gli scissionisti in un unico cartello. I due fratelli si odiavano al punto di essersi costituiti alla polizia fascista pur di poter denunciare anche l'altro (dalla loro vita sono tratti quasi tutti i film di Citto Maselli). Lo slogan è 'Fate bene i conti: più ci dividiamo, più siamo'. Dissapori tra gli eredi Barbarossa hanno portato, negli anni '60, alla scissione del partito di Unità Scissionista in due partiti, con programma identico ma punteggiatura diversa.

Partito Comunista Barnum Raccoglie i militanti comunisti che si sono distinti, nel mondo, per l'originalità e la spettacolarità delle posizioni politiche. Il segretario è l'olandese Mikko Rujnardt, sostenitore dell'esproprio delle biciclette con il ciclista ancora in sella. Della segreteria politica fanno parte l'economista bengalese Vandana Sik, che propone di affidare il governo mondiale a un direttorio di elefanti, e l'ecologista radicale Sarah Boyte, americana, che progetta di ricucire il buco nell'ozono lanciando in orbita un gigantesco rocchetto di filo.

Nuovo Psiup Nato la settimana scorsa dalle ceneri del vecchio Psiup, si propone di raccogliere gli ex psiuppini desiderosi di riaffermare la tradizione psiuppina. L'inno è 'Mondo psiuppino', la rivista ufficiale 'Essere psiuppini', il programma è in fase di completamento ma gli analisti politici prevedono che sia identico a quello del vecchio Psiup. Il nuovo Psiup gode dell'appoggio dei principali logopedisti italiani, che hanno inserito la parola 'psiup' tra gli esercizi obbligatori per il recupero dei verbo-lesi.

Partito Comunista Vintage Mette a disposizione degli iscritti arredi d'epoca delle vecchie sedi comuniste: ritratti di Scoccimarro, cartine dell'Angola, una fotografia di Scoccimarro in Angola, posacenere ancora pieni di cicche di Gitane, libri degli Editori Riuniti e il paltò beige dimenticato da Pajetta in una tintoria di Castro Pretorio, a Roma.

Partito Proletario del Popolo Comunista e Socialista - Movimento dei Lavoratori Linea Rossa Marx-Leninista Internazionalista per la Liberazione delle Masse Fondato da Ugo Bo. È l'unico iscritto, ma non condivide le proprie tesi.

23.6.06

Il calcio del caimano

di Oliviero Beha - L'Unità, 20 giugno 2006

Mentre il paese rischia di affondare nella palude (subcostituzionale), in quella stessa palude il caimano riprende a sguazzare che è una bellezza. E lo fa sotto gli occhi di tutti, come ha sempre fatto da vent’anni. Forse è proprio questa estrema visibilità, che come il sole in faccia acceca, ad impedire la banale percezione dell’accaduto (cfr. la mezzala austriaca Wittgenstein, ”la cosa più difficile non è scoprire verità nascoste, ma vedere quello che si ha sotto gli occhi”).

Da tre giorni Silvio Berlusconi è di nuovo presidente del Milan, carica lasciata alla fine del 2004 per delicatezza in omaggio al conflitto di interessi (absit iniuria…). Esattamente come all’inizio del 1986 quando scese in elicottero a Milanello in qualità di nuovo proprietario e presidente dello “storico club di Via Turati”, fagocitando il pallone, masticandolo da par suo e trasformando quel corposo bolo salivare in un prodotto essenzialmente televisivo. Le tv già ce le aveva, la politica sarebbe formalmente arrivata dopo. Nel 1994. In quell’anno, contemporaneamente alla discesa in campo del Cavaliere in via di caimanizzazione, Umberto Agnelli sotto l’occhio non contrario del più famoso fratello dall’orologio sul polsino ingaggiava quella Triade di cui si parla assai oggi, nelle Procure e nella Federcalcio commissariata. Cose vecchie, si dirà, e risapute. Può darsi.

Certo è che all’epoca nessuno, sia più in generale per quanto concerneva il futuro Caimano sia nello specifico per la Triade dell’attuale associazione per delinquere ai fini di frode sportiva, provò a giustapporre le tessere del mosaico. Che cosa c’era di strano in fondo se il tycoon televisivo più importante d’Europa acquistava il Milan, e successivamente -qualche scudetto e qualche Coppa dei campioni dopo- gareggiava per Palazzo Chigi? Nulla. Ed era forse sorprendente che un pezzo di storia di’Italia sotto forma degli Agnelli, che avevano fatto combaciare a forza i due elementi (per quanto tempo ancora pagheremo dazio al famoso “quel che va bene per la Fiat va bene per il paese”? ), affidasse le sorti del club italiano più importante a qualcuno già stranoto nell’ambiente dei “ladri di cavalli”(definizione dell’Avvocato)? Evidentemente no.

Adesso di nuovo, mentre Borrelli indaga, Guido Rossi sorveglia e la Nazionale di Lippi marcia, sta succedendo qualcosa, con le stesse modalità macroscopiche di sempre. In ballo, ancor più esplicitamente che mai, c’è il rapporto di identificazione tra calcio e politica, o politica economica. Lateralmente, nel terzo club d’Italia Moratti si ricompra il 15 % dell’azionariato interista da Tronchetti Provera, in altre faccende telefoniche affaccendato, rinsaldando i rapporti tra la storica famiglia e l’Inter. Centralmente, dopo essersi sentiti dire di tutto da manager amazzonici quanto a scrupoli di stomaco come Giraudo (“pensino alle auto che alla Juve ci penso io”), gli eredi Elkann si sono ripresi il club, ”rifiattando” su di esso e facendo chiaramente capire che la Juventus e l’azienda sono una cosa sola. Ma chi si muove meglio-come sempre-nella palude è il caimano. Che dalla calcistizzazione del paese (e del pianeta, Mondiali docent) ricava una lezione solare: come ho preso la rincorsa in politica vent’anni fa, in altra epoca, certamente con Craxi ma altrettanto bene con Gullit e Lorella Cuccarini, così ripartirò dagli stessi blocchi oggi, con un po’ di Lega Nord se perdo la Lega calcio, con un po’ di Casa della Libertà avvinta come l’edera, soprattutto con un popolo elettore che è un misto di pubblico televisivo, di tifosi rossoneri, di consumatori di un intricato pasticcio sociale seminato nella palude.

Mentre a Roma si fanno prove tecniche del partito democratico, a spanne nelle difficoltà di amministrazione di un paese affondato nel fango (economicamente, ma soprattutto eticamente e culturalmente), a Milanello, metafora-laboratorio di un po’ di tutto, si gettano le basi per un partito populista. A maggior ragione se dovesse perdere il prossimo referendum, Berlusconi da che cosa dovrebbe rimettersi in moto per ricavarne un immediato vantaggio politico, da sfruttare televisivamente? Non mi soccorre altro che il calcio, e sarebbe per di più una riedizione aggiornata di eventi già visti, purtroppo pesati solo con grande e forse irrimediabile ritardo.
Nella calcistizzazione della politica e nella politicizzazione del calcio, l’ex presidente del Consiglio di nuovo in carica al Milan si è portato assai avanti con il lavoro. Si trova di fronte un paese in buona parte a sua immagine se non proprio ancora a somiglianza, e si comporta di conseguenza. La politica è ormai un messaggio superficiale, uno slogan da spalti per lo più televisivi, un attestato di appartenenza tifosa, un misto di convenienza personale e di difesa dalla “minaccia delle regole” ? Bene. L’Italia è un paese a misura di Moggi e dei Moggi, nel calcio e nel resto ? Benone. E allora perché non ritessere una trama a partire dal Milan, certamente non meno interessante di Forza Italia neppure dal punto di vista della politica ridotta al simulacro che abbiamo davanti a noi?

Si può obiettare che risalire di nuovo in sella al Milan proprio mentre il sistema-calcio è oggetto di seria indagine delle Procure non parrebbe la più strategica delle iniziative, almeno non con la correlazione politica appena esposta. A parte la battuta che vuole Berlusconi ferrato in questo campo, non credo sia il caso di sottovalutare la lungimiranza del caimano, anche se questa scena nel film di Moretti non c’è. Mettiamo che il Milan sia colpevole, e venga riconosciuto tale, pagando pegno. Se il disegno complessivo del Berlusca anche solo parzialmente si avvicina a questa ricostruzione, certo non si lascerà sfuggire l’occasione. Un partito popolar/populista che reagisca all’eventuale “ingiustizia” e alla persecuzione sub specie calcistica pare perfettamente nelle corde dell’ex premier di Arcore. Se vuole spostare in piazza la lizza politica, non mi verrebbe in mente niente di meglio. Se poi le schiere dei tifosi milanisti si dividono su Berlusconi come è sempre accaduto, accorreranno gli altri nel mix rotondopolitico. e comunque questo toglie poco o nulla all’ipotesi di lavoro meta-calcistico del caimano.
Tutto sta a capire se la tempistica berlusconiana è anche stavolta giusta come fu trent’anni fa agli inizi per la televisione, come vent’anni fa con il Milan trasformato in un veicolo di vendita di diritti tv, come dodici anni fa con Forza Italia creata dal nulla grazie a Publitalia e a un paese evidentemente sedimentato per esaltare questa tele-politica dei pannolini. Se per l’ennesima volta il caimano si gira e guizza meglio e più puntualmente degli altri in una palude che conosce come nessuno perché ha prepotentemente contribuito a generarla, non scherzerei su questa eventualità.

Sarebbe in linea con il suo sempiterno populismo centroamericano a superba monetizzazione in un paese che lo odia e lo invidia insieme, sarebbe un modo per ricambiare le carte su un tavolo da gioco attorno al quale è seduta la maggioranza e all’opposizione qualche nostalgico della politica d’antan , mentre intorno l’Italia è una santabarbara. Così facendo il caimano salterebbe ulteriori mediazioni, dal pluralismo alla calcistizzazione, dal contrappunto politico all’immediatezza del tifo. Se gli riuscisse l’operazione saremmo fritti. Un berlusconismo in calzoncini per i posteri, a futura memoria.

Intanto, perché potrebbe coinvolgere quella fascia di giovani, assai meno strutturati culturalmente dei padri e con un buco emotivo da riempire più facilmente, che recalcitrano anche solo al sentir nominare la politica e potrebbero finire invece sotto altre spoglie in quella rete. Poi perché la china di superficialità imboccata dal paese subirebbe una sicura accelerazione. Infine perché avrebbe l’effetto di far sembrare anacronistica la politica politicante già lutulenta di suo, che per controbattere il calcio-populismo del 2000 dovrebbe poter parlare in nome di qualcuno e di qualcosa, il che è oggettivamente sempre più arduo. Se il calcio ha assunto ormai le forme di uno stile di vita onnivoro e onninvasivo, il caimano sarebbe come sempre il primo a pilotare a suo favore il fenomeno e la relativa mutazione antropologica che ne seguirebbe.

Lo vedo come l’estremo opposto di quelle primarie di ottobre degli oltre 4 milioni che avevano ridato smalto a un’idea di partecipazione popolare subito rimpannucciata, e non certo per colpa dei votanti di allora. Berlusconi starebbe cercando il modo di indirizzare verso di sé un moto di popolo, giacché la politica plastificata così efficacemente resistente dal 1994 ormai è palesemente sdrucita, in Parlamento e nelle amministrazioni locali. Una flebo di calcio, dunque, a partire dal Milan, e via. Possibile, se ha un senso questo ragionamento così abborracciato, che la sinistra non si accorga di nulla e lasci filare il caimano nella palude mentre la fiera se la sta organizzando per il futuro “come se” fosse soltanto una partita di pallone?

Arroganza nazionale

di Marco Lillo - L'Espresso

La moglie, il fratello, la cognata e il segretario di Gianfranco Fini. Tutti nel business della sanità. Finché non scoppia una lite per soldi e palazzi

Nella hit parade delle intercettazioni celebri sta per balzare in testa alla classifica Daniela Di Sotto. Al confronto il ritornello sui "furbetti del quartierino" del vecchio Ricucci impallidisce. La moglie di Gianfranco Fini incide il suo hit sul nastro della Polizia di Potenza alle ore 20 del 19 aprile 2005: «Io sono andata a sbattermi il culo con Storace». Scioccato da tanta schiettezza, il pm Henry John Woodcock ha piazzato su questa frase un omissis. "L'espresso" invece la pubblica integralmente perché è significativa per capire gli affari di rilevanza pubblica di cui parlano al telefono Daniela Fini e il segretario di suo marito Francesco Proietti, detto Checchino, oggi deputato.

A differenza delle altre nove volte nelle quali la moglie e il braccio destro dell'ex vicepremier ricorrono alla stessa parola nel corso della telefonata, qui non c'è omissis che tenga. Lo "sbattimento" di Daniela con Storace ha prodotto una convenzione per la clinica della famiglia Fini. Secondo il pubblico ministero Henry John Woodcock: «Francesco Proietti e Daniela Di Sotto (nome da nubile della signora Fini, ndr) fanno esplicitamente cenno all'interessamento profuso dalla Daniela Di Sotto presso Francesco Storace - all'epoca dei fatti presidente della Regione Lazio - affinché la clinica Panigea operasse in regime di convenzione l'esecuzione di esami clinici (Tac e risonanza magnetica) particolarmente costosi». Attenzione ai tempi: la richiesta di convenzione della Panigea porta la data dell'11 febbraio, il parere favorevole della Asl è del 14, la delibera della giunta (che due mesi dopo andrà a casa) è del 18, alla faccia della burocrazia regionale.

La telefonata intercettata è dell'aprile 2005. Daniela Fini e Proietti dovrebbero brindare per i futuri incassi e invece sono infuriati perché a beneficiare della convenzione prodotta dallo "sbattimento" non saranno loro due ma il loro socio di maggioranza. Si chiama Patrizia Pescatori e non è un socio qualunque: è la cognata di Gianfranco Fini. Patrizia Pescatori ha sposato Massimo Fini, un dottore che lavora dal 1986 per la Tosinvest di Giampaolo Angelucci (il re delle cliniche finito ai domiciliari in un'altra indagine dei pm di Bari lunedì scorso). Massimo Fini è il direttore sanitario dell'Istituto San Raffaele, la struttura più importante del gruppo Tosinvest che ha ceduto alla fine degli anni Novanta a sua moglie il centro Panigea, mantenendovi una piccola quota simbolica. La società che gestisce il Panigea (Poliambulatorio Cave Srl) fatturava nel 2004, già prima di avere l'accreditamento, ben 2 milioni e 300 mila euro all'anno. Più piccola invece la seconda struttura della premiata ditta Daniela&Checchino: la Emmerre 3000 srl. Si tratta di un centro fisioterapico che ha visto esplodere il suo fatturato dai 30 mila euro del 2002 ai 540 mila del 2004. Anche in questo caso l'accreditamento è arrivato grazie alla giunta Storace. Il centro infatti lo aveva perso a causa del crack della società che ne era titolare. La Asl Roma C ha però espresso parere favorevole al trasferimento dell'accreditamento dalla fallita alla società dei Fini (MR 3000 Srl) il 14 marzo 2003.


Nonostante gli affari vadano a gonfie vele per entrambe le società, le cognate litigano e vogliono separare le loro strade. I magistrati di Potenza descrivono così la situazione: «Socio di maggioranza del poliambulatorio Panigea è Patrizia Pescatori, la quale, al fine di acquisire l'intero controllo della struttura, propone di scambiare la quota da lei posseduta in Emmerre con le quote possedute da Daniela Fini e da Francesco Proietti in Panigea». Daniela e Checchino vogliono liberarsi della cognata ma «non intendono dismettere le loro quote in Panigea, investimento che ritengono particolarmente vantaggioso. Dal 2003, pur non comparendo ufficialmente quali soci, Proietti e Daniela Fini avrebbero investito in Panigea 100 mila euro pro capite, quota il cui valore sarebbe destinato a rivalutarsi nel tempo, proprio grazie al volume d'affari generato dalle prestazioni sanitarie effettuate in regime di convenzione». A mettere zizzania tra i due rami dei Fini è proprio la convenzione. Daniela si rammarica di avere faticato tanto per portare quattrini a una società nella quale è in maggioranza la cognata: «Lo sai qual è stato il nostro errore? Quando sono andata a sbattermi con Storace bisognava fare un'altra società a cui intestare le convenzioni della risonanza e della Tac». Che fare? Vendere no. «E che, ora che diventa il pozzo di San Patrizio te la do? 'A bella...!», dice Daniela parlando della cognata.

A complicare ulteriormente le cose, secondo i pm di Potenza, arriva «un nuovo vantaggioso affare di cui Proietti è stato l'abile e occulto regista, ovvero l'acquisto, ad un'asta giudiziale, della struttura in cui è ubicata la Emmerre». Il prezzo basso per il valore effettivo dello stabile (un milione e 150 mila euro) è stato sostenuto con un mutuo da Daniela e Checchino che ora non vogliono assolutamente spartirlo con la cognata. Insomma il classico intreccio di soldi e parenti nel quale chiunque metta il dito rischia di farsi male. Saggiamente Gianfranco Fini se ne tiene alla larga. Per il pm Woodcock il leader di An è all'oscuro di tutto. Comunque in un'intercettazione Daniela dice a proposito della questione dell'immobile: «Gli ho fatto vedere il foglio a Gianfranco. Dico: "Io ho tirato fuori 'sti soldi, e a te non t'ho chiesto niente. Perché tu mi hai detto "non mi mettete più in mezzo". Ok. Però tu sappi che se tiri fuori mille lire per tuo fratello, andiamo a litigare io e te. Secondo poi, mi sono rotta il cazzo che la gente c'ha le cose quando pagano gli altri». Il culmine della tensione si tocca quando l'amministratore della Panigea, Marco Bertucci, convoca l'assemblea con la cognata senza avvertire Daniela che si infuria: «Gli ho detto: Marco, tu vai a rubare a casa dei ladri. Ricordati che l'unica università che ho conosciuto io a differenza di te, è quella della strada, hai capito?». Proietti con involontaria ma esilarante ironia corregge: «Quella del marciapiede». Lei presa dal discorso conferma sempre più arrabbiata: «Esatto. Io ho conosciuto quella di università e con quella io ti spacco il culo!».

Anche le nuove leve fanno la loro apparizione. La figlia di Gianfranco Fini sponsorizza l'amico del cuore. Mamma Daniela prima pensa a farlo assumere come portantino da Giampaolo (probabilmente Angelucci) poi Francesco Proietti tira fuori dal cilindro una soluzione: «Alle Poste. Lo posso fa piglia' subito tre mesi per tre mesi con la società interinale e poi lo faccio assumere direttamente». Ma il ragazzo inspiegabilmente rifiuta. Checchino lo chiama sorpreso: «M'ha chiamato Susan, la segretaria dell'amministratore delle Poste, Massimo Sarmi. Mi ha detto che ti hanno chiamato e tu gli hai detto che avevi un altro lavoro, è vero?». «Mica le Poste», risponde l'amico della figlia di Fini, «un'agenzia di lavoro interinale, Obiettivo Lavoro, mi ha chiamato. E io gli ho detto no che sto aspettando una chiamata per lavoro a tempo indeterminato». Il ragazzo è poco sveglio o fa il difficile. Comunque Proietti non si dà per vinto: «Richiamo per andare a parlare con l'amministratore delegato».

Per i magistrati di Potenza «non v'è dubbio che le vicende in esame, sia per ciò che riguarda la convenzione con la Regione Lazio, sia per ciò che riguarda più specificamente i rapporti societari tra Proietti e Daniela Fini, i loro prestanomi e gli altri soggetti interessati alle società impongono un particolare ulteriore approfondimento investigativo». E chissà che non si muova anche l'Antitrust. La legge sul conflitto di interessi imponeva a Daniela Fini di dichiarare le sue società per vigilare sul conflitto di interessi con il marito. A "L'espresso", risulta che abbia dichiarato solo la Davir Srl, società che ha comprato tra maggio e giugno le quote di Panigea (10 per cento) e Emmerre (44 per cento). Eppure Daniela Fini si sentiva padrona ben prima. All'amministratore che non la considerava socia di Panigea replicava: «Che cazzo vuol dire che io non ho le quote? Oh! Non ce le ho intestate, che è differente. Non è che non ce l'ho».

19.6.06

Porci senza ali

di Marco Travaglio - L'Unità

Per due giorni di seguito il Corriere della Sera ha commentato in prima pagina gli ultimi scandali. L'altroieri il vicedirettore Pierluigi Battista s'è occupato di Calciopoli e dei sospetti che aleggiano su alcuni magistrati torinesi. Ieri Piero Ostellino s'è dedicato all'indagine di Potenza che ha portato all'arresto di Vittorio Emanuele. Il primo ha accusato la Procura subalpina di eccessiva prudenza, «archiviando, nella città della Juventus, inchieste che altrove sono invece scoppiate come bombe sulla vita pubblica italiana». Il secondo ha accusato la Procura del pm Woodcock di eccessiva imprudenza, avviando «rumorosissime inchieste poi finite in una bolla di sapone» (cosa peraltro falsa). I due commenti sembrano fare a pugni. Invece sono due facce della stessa medaglia. Che si può riassumere nel celebre motto di Altan: «Porco è bello».
Un motto di cui Giuliano Ferrara è il caposcuola indiscusso, con allievi sempre nuovi e talvolta insospettabili. Sono vent'anni, da quando si cercavano alibi per Craxi, e poi per Andreotti, e poi per Berlusconi & C., che uno stormo di «intellettuali» si affatica a dimostrare che il potere, come diceva Rino Formica, è «sangue e merda». Non, beninteso, per bonificarlo. Ma per assolverlo sempre e comunque.
Sventuratamente, questo compiaciuto e voluttuoso avvoltolarsi nel fango incontra ogni tanto qualche ostacolo: qualche oasi di pulizia e di legalità alla quale si aggrappano i cittadini onesti per continuare a sperare in un cambiamento. La Procura di Milano che ha liberato l'Italia da Calvi, da Sindona, dalla P2, da Tangentopoli, dalle Fiamme Gialle corrotte, dalle toghe sporche romane e dai loro biscioneschi corruttori, e più di recente dalla Banda Parmalat, dai furbetti del quartierino e dagli agenti deviati della Cia. La Procura di Torino, che scoprì con Raffaele Guariniello le schedature Fiat e poi gli abusi nelle sale mediche aziendali di casa Agnelli, e otto anni fa scoperchiò il pentolone del doping alla Juventus e non solo, e nel frattempo con il procuratore Marcello Maddalena e altri pm fece condannare il presidente Fiat Cesare Romiti, fece arrestare e condannare per la prima volta Dell'Utri, intercettò la prima notizia di reato a carico di Previti. La Procura di Palermo, che sotto la regìa di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte osò processare per la prima volta gli intoccabili per i loro rapporti con la mafia, da Andreotti a Contrada, da Dell'Utri a Mannino. E altre Procure più piccole, come quella di Potenza, sempre elogiate per il loro «riserbo» finchè non facevano nulla, o si occupavano di ladri di polli, e sempre attaccate per il loro «protagonismo» quando fanno qualcosa e magari incappano in qualche «eccellente» (invece di domandarsi perché Woodcock ha la passione per i «vip», bisognerebbe chiedersi come mai, appena s'indaga su un traffico illecito, s'incontra come minimo un parlamentare o un ministro della Repubblica, o con un sedicente principe della monarchia?).
Ogni qual volta esplode uno scandalo, ai cittadini onesti si allarga il cuore: non tutto è perduto, c'è ancora un giudice a Berlino, la legge può esser davvero uguale per tutti. È a questo punto che interviene il trio Ferrara-Ostellino-Battista: a seminare sfiducia e rassegnazione, a dire che sono tutti uguali, guardie e ladri, giudici e imputati, intercettatori e intercettati. E giù fango a carrettate per schizzare tutto e scoraggiare tutti. Se tutto è «sangue e merda», hanno torto i giudici e ragione gli imputati.
Infatti è sulle indagini che si concentrano lorsignori: ora troppo prudenti, ora troppo decise, ma sempre sbagliate. Lo scopo, non dichiarato e forse neppure da tutti pensato, è farla finita con le inchieste, almeno sugli «eccellenti», perché «a certi livelli» è tutto «sangue e merda»: è sempre stato e sempre sarà così. Perciò si sorvola sugli scandali che emergono dalle indagini. Perciò si parla dei giudici e mai dei reati. Dell'inesistente «protagonismo» di Woodcock, e non del quadro devastante che affiora dal suo lavoro, con l'ex famiglia reale trasformata in un bordello, la Rai (finalmente privatizzata) ridotta a un covo di prosseneti, e certi alfieri dei «valori della famiglia» indaffarati a barattare spazi televisivi in cambio di sesso.
Il caso della Procura di Torino è emblematico. Processa la Juve per doping fra il disprezzo e l'indifferenza dei commentatori à la page (gli attacchi sul Corriere di Giorgio Tosatti, amicone di Lucianone, a Guariniello riempirebbero una Treccani). Indaga su Moggi & arbitri. E sui bilanci bianconeri. Nel 2004 intercetta Lucianone, Giraudo e Pairetto per due mesi, poi il gip blocca le intercettazioni. Guariniello, pur disarmato, vorrebbe tener aperto il fascicolo, sperando in qualcosa. Maddalena opta per la richiesta di archiviazione, pronto alla riapertura in caso di nuove notizie di reato. Se sapesse che Napoli sta ancora intercettando, agirebbe diversamente. Ma lo scopre troppo tardi. A posteriori, aveva ragione Guariniello. Forse Maddalena doveva osare di più (e prepararsi alle accuse di «accanimento antijuventino» da Ostellino, Ferrara e Battista). Fra l'altro, per l'eterogenesi dei fini, l'archiviazione di Torino ha salvato Napoli: se il fascicolo subalpino fosse rimasto aperto, si sarebbe dovuto avvertire Moggi con una richiesta di proroga, così lui avrebbe smesso di parlare al telefono e l'indagine napoletana sarebbe morta lì.
Ora dalle intercettazioni emerge che l'aggiunto torinese Maurizio Laudi, giudice sportivo, ha chiesto a Moggi qualche parcheggio allo stadio (che non è casa di Moggi, è un luogo pubblico gestito dalla Juventus) e parlava con i dirigenti federali, dai quali dipendeva, prima di emettere alcune sentenze sportive. Emerge che un pm, Antonio Rinaudo, tifosissimo bianconero, è andato un paio di volte a cena con Moggi. Emerge che il procuratore di Pinerolo era intimo di Moggi. Ed emerge pure un particolare raccapricciante: Moggi regalò per Natale qualche cravatta a Caselli, che gli aveva chiesto delle maglie usate della Juve per una serata di beneficenza. Intendiamoci. Laudi avrebbe fatto meglio a lasciare la giustizia sportiva quando la sua Procura avviò le prime indagini sulla Juve: non si diventava giudici sportivi per volontà dello Spirito Santo. Per il resto, i suoi rapporti con i vertici del calcio, salvo che non emergano novità illecite, erano fisiologici al ruolo che ricopriva. I parcheggi non sono nulla di illegale, né di immorale. Così come le cravatte a Caselli: il quale tre mesi fa, come procuratore generale, ha firmato con Guariniello il durissimo ricorso in Cassazione contro l'assoluzione della Juve al processo per doping. Restano le cene di Rinaudo, che se le poteva risparmiare (anche se nulla sapeva delle indagini su Moggi); e i maneggi del procuratore di Pinerolo, che non si vede come riguardino Torino (a meno di creare una responsabilità oggettiva regionale).
Ecco, è questo topolino che ha scatenato una montagna di attacchi alla Procura torinese, dipinta come un covo di complici di Moggi, succubi dei poteri forti, nuovo porto delle nebbie (su decenni di inerzia della Procura di Roma, competente su tutti i palazzi del potere, anche sportivo, nemmeno una parola). Carlo Federico Grosso, sulla Stampa, chiede «chiarezza» su eventuali contiguità filojuventine (ma non era lui che, un anno fa, firmò un parere pro veritate in difesa di Giraudo e Agricola al processo doping?). E Battista, entusiasta, lo elogia: era ora che venisse «lacerata la coltre di imbarazzo che ha accompagnato il venire alla luce di comportamenti disdicevoli nella Procura torinese»; basta con «la reticenza degli opinion maker» che «ha contribuito a costruire il monumento all'avanguardia 'piemontese' contro la corruzione, il terrorismo e la mafia». Forse Battista non sa che quel monumento non l'ha eretto la reticenza: l'hanno eretto i risultati ottenuti dai Caselli, dai Maddalena, dai Laudi e da tanti altri giudici piemontesi contro le Br (quando magari certi neocon dell'ultim'ora vezzeggiavano l'estremismo), ma anche contro la mafia (che assassinò il procuratore Caccia, maestro di Caselli, Laudi e Maddalena, e tentò di fare la pelle al primo e al terzo). Ma Battista preferisce farfugliare contro i «difensori dell’ortodossia 'piemontese'» e le condotte «non proprio commendevoli» come l'«acclarata abitudine di integerrimi magistrati di intrecciare con Moggi conversazioni incardinate su richieste di parcheggi allo stadio».
Par di sentire Ferrara, che l'altro giorno si scagliava contro «la Procura di Caselli, Laudi e Maddalena, pupilli dei compianti Galante Garrone e Bobbio». Capìta l'antifona? Anche quei moralisti di Bobbio e Galante Garrone van cestinati con ignominia per concorso esterno in moggismo: il «tempio» dell’azionismo piemontese va smantellato perché Maddalena ha archiviato un'inchiesta, Moggi ha regalato tre cravatte a Caselli e Laudi parcheggiava allo stadio. Lo dice Ferrara, che prendeva i soldi dalla Cia e da Tanzi, e quando fu arrestato Squillante con 9 miliardi in Svizzera e i conti comunicanti con Previti, lo definì «uomo probo».
E lo ribadisce col copia-incolla Battista, già vicedirettore del Panorama di Giuliano Ferrara che diffamava il pool di Milano, reo di aver scoperchiato lo scandalo «toghe sporche», allegava videocassette per sputtanare Stefania Ariosto e pubblicava l'«Elogio di Previti» firmato da Ruggero Guarini. Presto, ne siamo certi, se ne parlerà a «Porta a Porta», in un bel dibattito con Bruno Vespa (che concordava ospiti e scalette con l'entourage di Fini), con Cesare Previti nell'ora d'aria, e magari con qualche procace ragazza assunta dallo squisito talent scout finiano Salvatore Sottile, in una memorabile puntata dal titolo: «Porco è bello? Opinioni a confronto».

18.6.06

Spot-beffa, e su Rai e Mediaset va in onda la riforma dei sogni

di SEBASTIANO MESSINA - Repubblica

Domenica e lunedì prossimi ci sarà un referendum importante: quello per la riduzione degli onorevoli. C´è un pezzo d´Italia - qualche milione di casalinghe, di pensionati e di ventenni che non leggono i giornali ma vedono solo la tv di Beautiful, dei telefilm e delle fiction di prima serata - che sa solo questo, sul voto del 25 e 26 giugno. Mentre i politici si affannano nelle polemiche sull´ultima sparata di Bossi, o si arrovellano per cercare di tradurre in parole semplici e comprensibili i complicati meccanismi della devolution e del nuovo bicameralismo, la televisione (o meglio: Mediaset) ha già semplificato la questione, spolpandola delle motivazioni leghiste, disossandola del contenzioso tra premier e presidente, e lasciando sul piatto solo il tema più appetibile, più popolare, più accattivante: il taglio delle poltrone degli onorevoli.
Provate a fare zapping su Canale 5, Italia 1 o Retequattro, e nel giro di mezz´ora beccherete di sicuro lo spot più ricorrente (e più subdolo) di quella che le reti di Berlusconi chiamano «campagna Referendum Costituzione». In pochi secondi è concentrato un piccolo capolavoro di propaganda politica. L´inizio è quello classico dello spot istituzionale, con l´immagine di un´urna elettorale e la data del referendum. Poi viene il bello. «La riforma prevede tra l´altro (pausa) la riduzione del numero dei deputati da 630 a 518» e si vede un contatore come quello dei telequiz che scala di 112 numeri. Non è finita, perché lo spot continua: «... e la riduzione del numero dei senatori da 315 a 252».
Altro contatore, stessa scena. Uno pensa: adesso vediamo cosa dicono degli altri punti. E invece no. Non ci sono altri punti. «Chi è favorevole alla riforma deve tracciare un segno sul riquadro Sì, chi è contrario deve tracciare un segno sul riquadro No» spiega con calma una voce tranquilla, mentre sul video scorrono le immagini stilizzate di elettori che vanno in massa (ma ordinatamente) a votare per il referendum. E gli altri punti della riforma? E la devolution, il premierato forte, il Senato federale? Non ce n´è traccia. Per i più curiosi, c´è in fondo allo spot una riga scritta con gli stessi caratteri delle avvertenze per le pillole contro il mal di testa (quelle che dicono: «Se il malessere persiste consultare il medico»), e cioè: «Per consultare il testo integrale della riforma, visitare il sito www. interno. it». Figuriamoci.
Non è l´unico spot, ha risposto Mediaset ai parlamentari dell´Unione che hanno aperto il caso. «La campagna è stata ripartita in quattro diversi spot per rendere comprensibile ogni singolo messaggio». E´ vero. Ce ne sono altri tre, di spot «istituzionali» sulle reti Mediaset. Il primo fa l´elenco dei cinque punti principali della riforma (al primo posto la riduzione dei deputati, al secondo quella dei senatori, negli altri tre punti c´è tutto il resto). Il secondo spiega la devolution come «ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni». Il terzo illustra i nuovi poteri del primo ministro.
Eppure, chissà perché, lo spot che va in onda durante i programmi più popolari («Beautiful», per esempio, o «Un ciclone in famiglia»), lo spot che finora è stato trasmesso per 20 volte - contro i 5 passaggi di quello sul premierato, gli 8 di quello sulla devolution e i 16 di quello generale - è sempre lo stesso: quello sulla riduzione dei parlamentari. Guarda caso, l´unico argomento che, secondo i sondaggisti, è in grado di far guadagnare consensi al Sì. A Mediaset assicurano che nei prossimi giorni la rotazione tra i quattro spot sarà paritaria, raggiungendo un totale di 158 passaggi, ma ormai il messaggio è stato lanciato: si vota per tagliare le poltrone degli onorevoli.
Cambiando canale, e passando alle reti Rai, si nota subito una differenza. Anche qui c´è uno spot istituzionale (uno solo), ma il tono è molto, molto diverso. Invece del messaggio suadente che elenca le riforme come se fosse la lista dei regali di Babbo Natale, c´è una voce dal tono ufficiale che legge il testo del quesito sulla scheda («Approvate il testo della legge costituzionale concernente modifiche alla Parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005?») e avverte che «gli articoli più importanti» riguardano «il trasferimento di competenze alle Regioni», «i poteri di Camera e Senato e quelli del Presidente della Repubblica e del Primo Ministro», «le procedure per la fiducia al governo e per l´approvazione delle leggi».
Nessun accenno alla riduzione dei parlamentari, nessuna sottolineatura né in positivo né in negativo. Alla fine, un chiarimento fondamentale: «Votando Sì, il cittadino approva la riforma. Votando No, esprime la volontà di respingere la legge e di lasciare inalterata la Costituzione vigente». Chi non ha mai sentito parlare della riforma non capisce granché, però riceve uno stimolo a informarsi invece di una pressione a votare Sì.
Informarsi, già, ma dove? Le reti Mediaset se la cavano con gli spot, con le interviste a Berlusconi al Tg5 e stringatissimi servizi nei telegiornali assai poco utili a capire cosa sia questa riforma. Quanto alla Rai, bacchettata sul Corriere della Sera da Giovanni Sartori per le sue striminzite schede e per gli incomprensibili duelli tra un politico che parla di devolution e un altro che parla del premierato, qualcosa è cambiato: negli ultimi due giorni i telegiornali hanno mandato in onda servizi più documentati e interviste meno surreali, ma non bastano pochi minuti durante un tg a spiegare la devolution.
Ci vorrebbero i dibattiti, le Tribune. Che in effetti sono previste, però in orari morti: alle 13,20 su RaiTre e alle 17,30 su RaiDue. «Porta a porta» se ne occuperà stasera, «Ballarò» martedì. Ieri è andato in onda uno Speciale Tg1: bel dibattito, ma alle 16, con mezz´ora di ritardo. Non l´ha visto quasi nessuno. Lo spazio in seconda serata era sequestrato da «Notti mondiali», ed è lo sport che fa audience: per la riforma della Costituzione c´era posto solo al pomeriggio.

16.6.06

Vi racconto le Camicie verdi. E non scambiatele per un fatto folkloristico

da L'Unità: parla l’autore del Dvd “Camicie Verdi” sulle tentazioni violente della Lega

Va preso sul serio? Bossi torna al linguaggio duro, quello del '96, quando lanciò la sua sfida allo Stato con la dichiarazione d'indipendenza della Padania. In quegli anni diceva. «Faremo il governo del Nord, un governo senza poltrone, il governo delle carabine» e ai magistrati che indagavano sulla Guardia nazionale padana, le Camicie verdi, accusate di essere una formazione paramilitare, ricordava: «Una pallottola costa solo 300 lire». Oggi, a pochi giorni dal referendum sulla Costituzione, minaccia il ricorso a vie non democratiche .
Nel film “Camicie Verdi”, distribuito con l'Unità, cerco di dare una risposta documentata e imparziale, proprio a questa domanda: le minacce di Bossi vanno prese sul serio, o sono soltanto sparate da comizio? Ed ecco che scorrono le immagini. Vediamo Bossi, nel '98, portare in piazza 40.000 persona a Verona. Il palco degli oratori è a un isolato dalla casa del procuratore capo Guido Papalia, titolare dell'inchiesta sulle Camicie verdi. Bossi usa toni minacciosi, indica la casa del magistrato. E l'europarlamentare della Lega, Mario Borghezio, dallo stesso palco, urla: «Lo cacceremo a calci nel culo! Daremo la sua casa a un onesto lavoratore!»
Che cosa vi ricordano questi metodi, questo linguaggio?
Nel film c'è anche una mia intervista al senatore Corinto Marchini, il fondatore, nel '96, delle Camicie verdi, poi fuoriuscito dalla Lega. Marchini racconta che Bossi gli chiese di organizzare manifestazioni eclatanti, di bruciare il tricolore in piazza, di tenersi pronto a sparare sui carabinieri. Non sappiamo se Bossi abbia veramente detto cose di una tale gravità. Marchini racconta anche di un complotto interno alla Lega per uccidere Borghezio, col duplice scopo di eliminare un concorrente politico e creare un martire da spendere sulle piazze. Questa sembra veramente una panzana. Ma quando la racconto al diretto interessato, sulla faccia di Borghezio a tutto schermo non si vede battere ciglio. Nessuno stupore, anzi dichiarazioni del tipo, certo in una fase come quella sono cose che potevano anche succedere...
Siccome non volevo centrare tutto il mio documentario sugli aspetti complottardi, ma anzi dare spazio adeguato alle ragioni e agli umori del popolo della Lega non ho montato nel documetario altre rivelazioni di Marchini. «Nel '98 - mi dice l'ex senatore della Lega - uno dei capi delle Camicie Verdi era un certo Signorini, che solo più tardi scoprii essere il realtà un terrorista di Prima Linea, Roberto Sandalo, protetto dai servizi segreti».
A suffragio di questa ipotesi, che Sandalo fosse un infiltrato per conto dei servizi, Marchini non è in grado di fornire prove. L’idea che resta comunque è quella di un terrorista (ex) sicuramente addestrato all'eversione e all'uso delle armi, occupare un posto di comando nell'organizzazione, secondo il procuratore capo di Verona, paramilitare, denominata Camicie verdi, Guardia nazionale padana. Signorini viene smascherato e allontanato. Ma quello è il clima.
Borghezio sostiene: «La violenza della Lega è soltanto verbale». E, come se questa premessa fosse un lasciapassare, lo vediamo, nei suoi comizi dal palco, riversare sulla folla un'incitazione all'odio così feroce e veemente che, pur avendo lavorato sui materiali all'infinito per il montaggio, tutte le volte che partecipo a una proiezione in pubblico mi fa star male. Perché? Forse perché avverto un crescendo di aggressività in quelle immagini, scatenato e irresponsabile, che può sfociare, anzi si vede sfociare, con la strage di Bengasi sobillata dalle stupide magliette di Calderoli, negli scenari apocalittici cui la cronaca internazionale ci ha ormai abituati.
C'è una frase che ricordo e che ritornava sempre nelle mie cronache dai Balcani per il Corriere Della Sera. Parlavo con intellettuali, politici, gente comune, sopravvissuti alle guerre civili scoppiate nella ex Jugoslavia. E tutti mi dicevano la stessa cosa: «Non avevo minimamente previsto l'esplosione di questa violenza, non avrei mai immaginato che il mio vicino di casa si sarebbe trasformato nel mio aguzzino, che il nostro paese sarebbe diventato un campo di battaglia». La cito non per montare un confronto improprio tra la nostra situazione e quella balcanica, ma per ricordare a tutti, e principalmente a chi vota per la Lega Nord, che la violenza, quando viene evocata, tende a uscire di controllo. Attenzione. Facciamo un passo indietro. Ragioniamo. Un politico non deve mai agitare la minaccia del ricorso a vie non democratiche. Si trattasse anche soltanto di parole, di violenza puramente verbale, chi ci dà la garanzia che qualcuno non le prenda sul serio? Nel film mostro le immagini dell'attentato a Montebelluna, 21 maggio 2005. Un'auto carica di bombole viene fatta esplodere. Poteva essere una strage. Sul cofano una scritta: "La prossima è per la Puppato". Laura Puppato, sindaco di Montebelluna, eletta con una lista di centrosinistra a poca distanza da Treviso, dove la linea del sindaco Gentilini regna incontrastata, più volte era stata il bersaglio di violenze verbali. E nel film vediamo Gentilini, tenere uno dei suoi comizi, davanti all'immagine immensa di un biondo padano che a torso nudo spezza le catene. Immagine che sembra prelevata di peso dall'iconografia nazifascista, per non parlare dei toni e dei contenuti del suo intervento.
Naturalmente questo invito alla responsabilità e alla prudenza ha senso solo se rivolto a persone che abbiano a cuore il destino del Paese. Bossi è una di queste persone? Al termine del mio reportage attraverso le varie anime della Lega mi permetto di dubitarne. Bossi è pronto ad allearsi con chiunque pur di ottenere il suo obbiettivo. Nel film, vediamo Bossi che incita a buttare il Tricolore nel cesso, ma lo vediamo anche giurare fedeltà alla Repubblica Italiana e alla Costituzione davanti a un Berlusconi sorridente e compiaciuto. Lo stesso definito monopolista televisivo, riciclatore dei capitali della mafia. Oggi la linea ufficiale della Lega, in vista del referendum del 25 giugno sulla devolution , è moderata e federalista. Ma basta osservare, nel film, le manifestazioni di piazza, anche le più recenti, per notare che lo slogan più urlato è ancora "Se/ces/sio/ne" e il coro intonato con più entusiasmo, anche dall'europarlamentare Mario Borghezio in persona, suona irrimediabilmente così: "E noi che siamo padani/abbiamo un sogno nel cuore/bruciare il tricolore/ bruciare il tricolore".
(Claudio Lazzaro)

LA SCELTA OSCURATA

di GIOVANNI SARTORI - Corriere della Sera

Tanto tuonò che piovve. A quanto pare il mio editoriale sul referendum in televisione del 13 maggio ha tanto tuonato da scatenare una grandinata. Il grandinatore massimo è l'ex ministro delle Riforme Calderoli che dichiara che io sono «come Moggi», che «mento sapendo di mentire». Come Moggi proprio no: io sono più bello. E poi come fa il nostro a sapere che so di mentire? È anche indovino? Legge nel mio animo? Io indovino non sono, però so che io non ho nessun interesse a mentire, mentre Calderoli sì: se perde rischia di dover tornare all'odontoiatria.
Ma anche Calderisi e Taradash ci vanno con la mano pesante. Sartori, dichiarano, «racconta bugie colossali», perché non è vero che nella riforma costituzionale del 2001 la sinistra aveva eliminato il bicameralismo perfetto e incluso la riduzione del numero dei parlamentari. Povero me. Scrivo un pezzo per spiegare che il quesito referendario non chiede ai votanti un paragone tra il 2001 e il 2005 (ma invece di soppesare i pro e i contro del testo del 2005), e la nostra coppietta mi accusa proprio di questo e di mentire su questo. Invece, e ovviamente, io faccio riferimento alle proposte della sinistra nella successiva legislatura, a cominciare dal disegno di legge (al Senato) n.ro 2320 dell'11 giugno 2003 nel quale si propone un Senato federale che superi «le incongruenze e gli appesantimenti dell'attuale bicameralismo perfetto», e una riduzione dei senatori a 200 (invece di 252) e dei deputati a 400 (invece di 518). Potrei citare altri testi. Ma già si intende che le «bugie colossali» sono di altri, non mie.
Tanto tuonò che piovve. Ma c'è anche il detto inverso: tuonò parecchio, ma non piovve per niente. In barba ai miei tuoni il consiglio di amministrazione della Rai mi fa sapere che tutto è ben fatto e va bene così. Questo «non ricevere» è stato votato, si noti, all'unanimità, e quindi anche dalla sinistra. Il che mi lascia impavido, visto che per me le costituzioni non sono né di destra né di sinistra (dal che consegue che farei le stesse riserve se il testo fosse di D'Alema-Fassino). Però mi fa specie che ai «sinistri» in Rai sfugga che il No è promosso dai loro. Vogliono perdere? Se lo meriterebbero.
Torno a spiegare. Il mio argomento è che un referendum deve strutturare una scelta; e il mio lamento è che la Rai non lo fa. La Rai illustra il testo del Polo; un testo che incorpora, ovviamente, le tesi del Polo. E le controtesi? Le critiche? Non ci sono. La Rai sostiene invece che ci sono, perché dopo il suo raccontino intervengono un sinistro e un destro con pistolotti prefabbricati di 10-30 secondi. Ma le spade non si incrociano mai. Uno dice che il popolo comanderà, l'altro che la devolution costa troppo. I due interventi non si controbattono, possono essere entrambi faziosi, e quindi lasciano il tempo che trovano. Quel che non capisco è se i vertici Rai fanno le gattemorte, oppure se proprio non sanno come fare meglio. Il messaggio che di fatto arriva al pubblico dal servizio pubblico è che il Polo vuole cambiare, vuole un governo forte e durevole, vuole meno costi e meno parlamentari, e così via di belluria in belluria. Invece i fautori del No cosa vogliono e cosa propongono? La Rai tace e non spiega che i due fronti vogliono entrambi le suddette bellurie, ma con metodi e strumenti diversi. I votanti indecisi questo lo sanno? Dalla Rai assolutamente no.

La fuga di notizie "dolosa" che ha affossato l'inchiesta

di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO. Repubblica. 15 giugno 2006

Le cose dovevano andare così. Il Mondiale "liscio". Poi, a luglio, la luna nera. A giochi chiusi, Luciano Moggi, Pierluigi Pairetto e Paolo Bergamo devono essere arrestati. In primavera, i pubblici ministeri di Napoli si mettono al lavoro per argomentare le richieste di custodia cautelare. Con i due designatori degli arbitri e il direttore generale della Juve, guai anche per Franco Carraro (presidente della Federazione Gioco Calcio), Innocenzo Mazzini (vice), Francesco Ghirelli (segretario generale), Maria Grazia Fazi (segretaria della Can, commissione arbitri). Per loro, interdizione dalle funzioni. Le fonti di prova che, per i pubblici ministeri, rendono necessario l'arresto declassano in inviti a comparire quando il segreto istruttorio è manomesso e l'inchiesta sul calcio italiano si trasforma in una storia di fuga di notizie, infedeltà istituzionale, intercettazioni manipolate. In una cronaca di indagati che conoscono le parole che li accusano e possono concordare - sereni - gli argomenti che possono salvarli.

Gli avvocati di Napoli dicono che l'inchiesta sul calcio è stato il segreto meglio custodito della storia giudiziaria partenopea. Impresa laboriosa in un palazzo di giustizia attraversato da spifferi caldi che hanno fatto epoca nella lotta al crimine organizzato. In questa occasione, al contrario, nessuno sa. I due pubblici ministeri Filippo Beatrice e Giuseppe Narducci mostrano in giro l'aria distratta di chi ha ben altro a cui pensare che non a partite accomodate.

Il trucco ha buon esito. I due pubblici ministeri, per tutto il giorno, lavorano all'ordinario. Quando nel tardo pomeriggio il falansterio giudiziario di Napoli si svuota, i due si mettono al lavoro sulla pila di intercettazioni trasmessa dalla seconda sezione del Nucleo operativo dei carabinieri di Roma. Non è che gli indagati se ne stiano con le mani in mano. Il più intrigante, Massimo De Santis, è in movimento già dall'ottobre 2004.

L'arbitro di Tivoli confida nelle sue fonti al Csm. Cerca di capire che cosa cova. Con la prima richiesta di proroga delle indagini (aprile 2005), gli indagati hanno la conferma che qualcosa si muove. Sono vigili e in tensione. Moggi, soprattutto. "Lucianone" ammette (interrogatorio, 15 maggio 2006): "Ero preoccupato per gli sviluppi dell'indagine di Napoli. Prima del febbraio 2005, chiesi all'amico Marabotto - al sostituto procuratore di Torino Giuseppe Marabotto - di interessarsi della questione".

Moggi non sa che le sue telefonate sono controllate né è in grado di dire chi informa Marabotto, eletto a "consigliere giuridico". Le mosse dei due non sfuggono agli investigatori. Scrive la polizia giudiziaria: "Si registrano contatti telefonici con magistrati e conversazioni tra gli indagati in cui si fa riferimento a magistrati. Tra gli altri, Maurizio Laudi (procuratore aggiunto di Torino e giudice federale), Giuseppe Marabotto, Antonio Rinaudo (sostituto procuratore di Torino), Cosimo Maria Ferri (giudice del tribunale di Massa Carrara, ufficio vertenze della Figc)".

Nell'aprile del 2006 tutte le carte sono ancora coperte. Meglio, sembrano coperte. Una telefonata svela che il segreto è di carta velina. Il capo della procura di Torino, Marcello Maddalena, nell'ultima settimana di aprile, chiama il suo collega Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli. Chiede lumi sullo stato di avanzamento dell'inchiesta. Il procuratore napoletano casca dalle nuvole, ma dissimula la sorpresa. Come fanno i "torinesi" a sapere? Chi li ha informati? Torino sostiene oggi che la fonte è un ufficiale dei carabinieri di Roma. In quel momento l'inchiesta (della cui esistenza, la stampa darà notizia soltanto il 5 maggio) si scopre "malata".

Già intorno all'indagine torinese, conclusa con l'archiviazione di Moggi e Pairetto, si era creato un circuito confidenziale che utilizzava informazioni riservate per pilotare gli avvenimenti. Nel settembre 2005, Berlusconi, informato con riservatezza da Franco Carraro, discute con Moggi a Palazzo Grazioli del dossier, "privo di rilievi penali", che il procuratore Maddalena ha spedito al presidente della Figc. Di quell'incontro, ufficialmente si sa soltanto quel che ne riferisce Silvio Berlusconi: "Moggi, di sua iniziativa, è passato a trovarmi nella sede di Forza Italia, per farmi i complimenti per una cosa che si era verificata. Abbiamo parlato delle intenzioni della terna Moggi-Giraudo-Capello".

Ufficiosamente, fonti vicine a "Lucianone" raccontano un'altra storia. Con il consueto sorriso, come per un bon mot, il presidente onorario del Milan spiega come sarebbe importante che i rossoneri vincessero lo scudetto nell'anno delle elezioni. Con ciglio preoccupato, il premier si interroga sul futuro della patata bollente caduta da Torino nelle mani di Carraro. Fa qualche domandina svagata sul modo di fare di Diego Della Valle, presidente onorario della Fiorentina.

Il premier, qualche mese dopo, non si trattiene e vuota il sacco in pubblico. A Vicenza, il 18 marzo, accusa il patron della Tod's di comportamenti opachi protetti dalle toghe rosse: "Gli imprenditori come Della Valle, che appoggiano la sinistra, hanno scheletri nell'armadio e sono sotto il manto protettivo di Magistratura Democratica". Si riferisce a quel dossier del calcio di cui ancora nessuno sa nulla?

Sette mesi dopo, la storia è più complicata. L'inchiesta è fuori del controllo esclusivo della giustizia sportiva. Quei magistrati di Napoli quali assi hanno in mano? Che cosa preparano? Nella prima settimana di maggio, a Roma, c'è l'incontro tra le procure di Napoli e di Torino (primo esito del colloquio telefonico tra Maddalena e Lepore). Oggi, tra i due uffici non corre buon sangue, ma quel che conta è altro. E' un fatto che, con il segreto ormai violato, i napoletani sono costretti a fare un passo indietro. Trasformano le richieste di arresto in avvisi a comparire. Anticipano la discovery e, con essa, il metodo di indagine, i contatti tra gli indagati, la qualità "negativa" dei loro colloqui. Svelano la coerenza tra gli accordi manipolatori e ciò che avviene, poi, sui campi di calcio e alle classifiche.

E' un fatto che l'imbarazzo dei "torinesi" cresce. Hanno chiuso precipitosamente un'indagine che i "napoletani" si sono covati come una chioccia le uova. I risultati ora sono in centinaia di intercettazioni che documentano l'esistenza di un Sistema che governa il calcio italiano e lasciano intuire la geografia di poteri. E' un duopolio. Ha i suoi cardini nel predominio del Milan su diritti televisivi e Lega e nel potere della Juventus su Federazione e arbitri. Può contare sulla docile cedevolezza di cinque squadre: Inter, Roma, Lazio, Parma, obtorto collo della Fiorentina.

Il "mondo a parte" del calcio è tutto qui. Due Soli e cinque Satelliti che si spartiscono, in parti molto diseguali, il "core business" dei diritti televisivi organizzando uno spettacolo posticcio dove la vittoria va in alternanza a due squadre (Milan e Juve) e viene lasciata alle altre cinque l'opportunità di contendersi la vetrina internazionale (e i milioni) della Champions League. In primavera, il problema è preservare il Sistema dagli impiccioni. Accade così qualcosa che abbiamo scorto già all'opera nei casi "Bpi-Antonveneta" e "Unipol-Bnl": è la formazione di un mercato illecito di informazioni riservate alimentato dal cuore stesso delle istituzioni, capace di orientare l'opinione pubblica. Produce un'affrettata discovery che deforma e paralizza il lavoro dei pubblici ministeri, offrendoli impotenti alla prova del fuoco dei primi interrogatori. Un esempio può aiutare a capire.

Quando ascolta quel che ha detto al telefono nei colloqui con Moggi, (interrogatorio del 25 maggio), Paolo Bergamo si dice "esterrefatto". Non trova altra parola, il poveretto. Sembra un giovanotto sorpreso a rubacchiare nel portafoglio della nonna. Quasi si arrende. Stupefatto, appunto. Naturale che i pubblici ministeri vogliano approfittare dello smarrimento per raccogliere una più autentica testimonianza. E' il loro maligno mestiere: indebolire gli attori per comprendere la trama della storia. A questo servivano anche gli arresti. Sarebbero stati domiciliari. Senza possibilità di comunicare con l'esterno. L'accusa voleva isolare Moggi, Pairetto e Bergamo dal loro ambiente. Da pressioni, complicità, magari ricatti. I pm falliscono. E tuttavia il peggio deve ancora affacciarsi.

Giorno dopo giorno, in tranche, in parziali segmenti, in intercettazioni singole, in sequenza temporale, il materiale raccolto nelle indagini si sversa in pubblico con la potenza del getto di un geyser. Vengono pubblicate anche intercettazioni mai trascritte e colloqui mutilati o manipolati per sottrazione. Conversazioni scherzose, e per questa ragione eliminate dai pubblici ministeri, sono offerte come "prove che inchiodano" (è il caso della conversazione tra Lorenzo Toffolini, team manager dell'Udinese e Leonardo Meani, delegato per gli arbitri del Milan).

Addirittura, appare un atto di indagine che non risulta agli atti. Il contenuto è soltanto verosimile, riguarda il rapporto tra il Milan e gli arbitri. Il numero di protocollo è un falso (Borrelli è venuto a capo del trucco, appena l'altro giorno). E' un modus operandi che abbiamo già visto in azione nell'estate del 2005, quando intercettazioni ancora non agli atti dell'inchiesta di Milano e neppure mai trascritte (colloquio Consorte-Fassino) sono offerte ai giornali.

La novità è che a Napoli, l'ufficio del pubblico ministero individua il luogo e le persone che, uniche, hanno potuto violare il segreto. I nomi sono ora, nero su bianco, negli atti trasmessi alla Procura di Roma. C'è un'accusa grave in queste carte. La fuga di notizie, sostengono a Napoli, è stata così imponente e distruttiva che deve essere stata "autorizzata dal comando del Nucleo Provinciale dei carabinieri di Roma e da alti ufficiali dell'Arma da cui gerarchicamente dipende quella struttura".

Soltanto qualche falso ingenuo oggi può credere che la fuga di notizie sia un lavoretto storto che si consuma tra pubblici ministeri e cronisti. Si scorge un'altra realtà, più raffinata. Aree infedeli delle istituzioni utilizzano la fuga di notizie per mutilare il lavoro dei pubblici ministeri confidando nell'ansiosa competizione dei media. L'eterogenesi dei fini fa il resto. Ne sortisce un "vietnam" politico-giudiziario-informativo in cui ognuno ci mette del suo per colpire sotto la cintola l'avversario.

A metà maggio, il lavoro di scasso ha offerto il suo bottino squisito. Tutti sanno tutto. I protagonisti malmessi sanno che cosa hanno detto, quando e come lo hanno detto; che cosa gli sarà contestato in un eventuale interrogatorio o testimonianza. Il programma degli impiccioni di Napoli salta. Era ambizioso. I pubblici ministeri erano convinti di poter ricostruire addirittura un ventennio di storia di "calcio sporco" (1986/2006), dimostrare la continuità del Sistema e la discontinuità tra la gestione di Italo Allodi e la mano di Luciano Moggi. Ne vedono addirittura la nascita quando Allodi cade per un'inchiesta del pubblico ministero di Torino, Giuseppe Marabotto, che vent'anni dopo ritroviamo "consulente giuridico" del "nuovo gestore" del Sistema.

Armando Carbone, che fu "l'uomo di mano" di Italo Allodi, racconta (interrogatorio del 20 maggio 2005): "Quell'operazione giudiziaria fu architettata da Luciano Moggi per prendere il posto di Allodi. Non ho esitazioni a riferire che il giudici Marabotto e Laudi furono strumenti di Moggi e sono persone con le quali Moggi ha continuato a intrattenere rapporti fino ad oggi... Marabotto, ogni volta che io - imputato in quell'inchiesta - provavo a parlare del Torino e della Juventus, mi rispondeva che bisognava parlare di altro. Laudi (allora sostituto procuratore e giudice dell'ufficio inchieste Figc) mi disse che della Juve non bisognava parlare".

Il castello accusatorio (e la promessa di verità) mostra il suo sfinimento quando ha inizio il pellegrinaggio di testimoni come Pierluigi Collina: "Moggi? Credo che millantasse. Pairetto e Bergamo? Non ho elementi per dire se dipendessero dai poteri forti" (interrogatorio, 16 maggio).

L'inchiesta è morente. Non può dare più alcun risultato. I pubblici ministeri di Napoli se ne rendono conto quando dinanzi a loro appare Claudio Lotito (9 giugno). Il presidente della Lazio parla, chiacchiera, straparla. Maneggia l'intero fascicolo delle informative dei carabinieri meticolosamente annotate. Pretende di farsi da solo le domande. Di darsi da solo le risposte. Quando le risposte potrebbero sollecitare pericolose curiosità, tronca il flusso verbale appellandosi alla facoltà di non rispondere. La procura di Napoli decide di fermarsi. La fuga di notizie ha ottenuto il suo scopo.

Quell'immenso materiale istruttorio che poteva condurre a significative fonti di prova non è più utilizzabile. Si va al deposito di atti che già tutti conoscono. I pubblici ministeri si conservano tre sole carte, ancora. Le presunte responsabilità della Commissione di appello federale (i giudici di merito della Figc). Le rivelazioni di segreto di ufficio che coinvolgono carabinieri, poliziotti, finanzieri, magistrati. E, infine, l'indagine accurata sulla "madre di tutte le partite truccate". Lecce-Parma 3-3 (29 maggio 2005).

C'è un sospetto. Perché quella partita, ultima di campionato, doveva finire proprio con quel risultato, 3-3? Perché tra le 2.187 combinazioni ancora possibili e capaci di decidere il destino di chi doveva andare in serie B, è stato combinato proprio quell'esito? L'arbitro De Santis avrebbe potuto lavorare di fino, come ha dimostrato di saper fare, per dare la vittoria al Lecce e dannare alla B il Parma. Era il modo più semplice per salvare la Fiorentina, come stava a cuore al Sistema. Il 3-3 è un risultato astruso, ma forse assai fine. Quel 3-3 può portare diritto nel cuore dell'affare che il Sistema non governava, ma di cui si approfittavano gli uomini del Sistema. Le scommesse clandestine.

15.6.06

I piazzisti del Ponte che non c'è

di Attilio Bolzoni - Repubblica.it

VILLA SAN GIOVANNI - Se volete conoscere la verità sul Ponte e scoprire quando anche voi ci passerete sopra, allora non date retta alle chiacchiere o alle bizze di certi ministri della Repubblica. Venite quaggiù, seguiteci sino alla punta estrema dell'Italia per vedere da vicino che la Sicilia già quasi non è più isola. La verità, tutta la verità ve la dicono solo quelle simpatiche hostess e quei ragazzi ammaestrati che abbiamo incontrato nei due Info Point della "Stretto di Messina spa".

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla "meravigliosa opera" e nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarvelo. Quella che parla è la voce del Ponte.

"Buongiorno, stiamo per dare lavoro a 40 mila persone", ci informa Antonio, vestito rigorosamente di blu e un sorriso prefabbricato che esibisce mentre gira intorno al plastico in mostra nella vetrina. C'è un treno ad alta velocità che corre sospeso tra cielo e mare, video con effetti speciali, brochure di raffinata fattura e pure il succo di frutta e gli arancini per i visitatori apparentemente più importanti.

E' cominciato a Villa San Giovanni il nostro viaggio sul Ponte che c'è e non c'è, è cominciato da uno dei due uffici di "comunicazione pubblica" appena aperti dalla società che da 35 anni - è nata nel 1971 - spende e spande per unire Scilla e Cariddi con quella striscia di acciaio e cemento. Via Garibaldi, civico 68 e civico 70, i traghetti un po' malconci della Ferrovie mollano gli ormeggi a meno di duecento metri, lunga è la fila di camion agli imbarcaderi delle linee private.

L'entusiasta Antonio verso mezzogiorno è lì, pronto a soddisfare tutte le nostre curiosità di turista di passaggio. È gentile, molto preciso. Allora si farà il Ponte? "Garantito". Ma il nuovo governo ha già annunciato che non è tra le sue priorità... "Per ora c'è una legge, le dichiarazioni di qualche ministro non fanno testo, la legge è quella fino a quando non se ne farà un'altra". E quando cominceranno i lavori? "Nel secondo semestre del 2007". E quando sarà finito? "In cinque anni esatti".

Di ragazzi e ragazze come Antonio all'Info Point di Villa la mattina di lunedì 13 giugno ce ne sono sette. Sembrano fatti tutti in fotocopia.

Ostentano gli stessi sorrisi, usano le stesse parole. Un disco incantato dalle 9 alle 21, ogni giorno esclusa la domenica, informazione implacabile per abbattere la resistenza dei più riottosi. Alla fine ci fanno riempire un questionario.

L'ultima domanda è decisiva: sei favorevole o contrario al Ponte? Un'ora dopo il vecchio e caro ferry boat ci porta sull'altra sponda, a Messina. Viale San Martino civico 174, questo Info Point è ancora più grande, ancora più sorridenti le sue hostess, ancora più convincenti i suoi venditori di sogni. Una è Annalisa, l'altro è A. S.. La prima ci regala "The Bridge", la nota informativa del progetto, un mini report sull'opera, trenta pagine che riportano la "valutazione ambientale strategica" e le "stime di traffico", i costi, i benefici. Su un maxi schermo si inseguono immagini di un mercato del pesce, macellai chini su quarti di bue, commercio, turismo, cooperazione, la scritta che annuncia come "migliorerà la qualità della vita".

Ma si farà davvero? Risponde A. S.: "Certo, altrimenti lo Stato dovrà pagare una penale altissima". E gli espropri? "Coinvolgono almeno 200 famiglie in Sicilia e circa 100 in Calabria". Il visitatore di passaggio è rassicurato. Se ne va con le certezze che sparge - appena qualche settimana dopo il "no" del nuovo governo di centro sinistra - la Stretto di Messina spa, società che per mantenere se stessa ha speso 150 milioni di euro da quando è nata e quasi 11 solo nell'ultimo anno. Fabbrica carte sul Ponte. Il progetto preliminare è chiuso in un baule che pesa 120 chili.

"Sono molti i miei colleghi che con le sue consulenze si sono fatti la villa al mare", spiega Tonino Perna, docente di sociologia economica all'Università di Messina, un intellettuale che da sempre è schierato contro. Soldi e ancora soldi. Ne distribuisce dappertutto la benemerita Società. Tra le voci di spesa del 2005 c'è quella "sui flussi migratori dei cetacei" e quella per "l'investigazione radar di uccelli migratori notturni", finanziata in extremis anche un'indagine psico-socio-antropologica sulla percezione del Ponte presso le popolazioni residenti".

E poi quei due Info Point per comunicare a tutti "le informazioni sul progetto, lo stato di avanzamento e le prossime tappe". A Messina hanno aperto pure un call center. Via telefono, sul Ponte dicono tutto e anche di più. "Questi ragazzi li hanno addestrati a divulgare informazioni di futurologia, raccontano un romanzo che non finirà mai e che non ha riscontro con la realtà", risponde sconsolato Osvaldo Pieroni, sociologo dell'Ambiente all'Università della Calabria di Cosenza.

E aggiunge: "Lavorano con la fantasia. E, infatti, il Ponte è una fantasia". Sarà anche così ma sullo Stretto c'è la febbre del Ponte che sale. E c'è chi soffia sul fuoco, chi fomenta la rivolta per l'opera che il nuovo governo non vuole più. Da giugno sono aumentati i prezzi dei biglietti dei traghetti privati, un po' per colpa del costo della nafta e un po' per un nuovo attracco siciliano che è a distanza doppia da Messina. Le sacrosante proteste vengono cavalcate dagli ultrà, a Villa San Giovanni e in Sicilia ormai si fanno code anche di un'ora e mezzo. Prima accadeva solo nei giorni caldi di agosto.

L'altra settimana c'è stata anche una piccola invasione di Messina, un'ottantina di pullman arrivati da ogni provincia orientale dell'isola con a capo quel Raffaele Lombardo dell'Mpa, l'autonomista che abita sotto il vulcano e che è diventato amico di Bossi. Erano quasi tutti "forestieri". C'era anche il governatore Cuffaro, c'erano il sindaco di Catania Scapagnini e il presidente della Provincia di Palermo Musotto. Erano in 7 mila a gridare che "è un'ingiustizia". Anche gran parte della stampa siciliana scalpita. Pagine e pagine sulla Sicilia strangolata dal suo Stretto. Si stanno modificando equilibri politici ed economici intorno al Ponte che c'è e non c'è. Palermo e Catania stanno insieme su un inedito asse. Messina è dall'altra parte. Per ora è solo una guerra di parole e di slogan. E' un altro gigantesco Info Point siciliano.

13.6.06

REFERENDUM LA TV INGANNA

Rai e Mediaset disorientano gli italiani
di GIOVANNI SARTORI - Corriere - 13 giugno 2006

L'incombente referendum sulla nuova costituzione investe argomenti molto difficili. I più non li capiscono, e quindi se ne disinteressano. A torto perché una scelta sbagliata danneggerà tutti, ivi inclusi i disinteressati. Ma tant'è. Il referendum è indetto, e il dovere della Rai come servizio pubblico è di spiegarlo onestamente e imparzialmente. Come? Come si fa? La nostra tv non lo ha mai fatto, probabilmente nemmeno sa come farlo, e comunque se ne impipa. In Saxa Rubra l'imparziale è un imbecille; l'intelligentone si schiera e, se l'azzecca, viene debitamente ricompensato dal vincitore. Da aprile il vincitore è cambiato. Ma il nuovo vincitore continua a sonnecchiare, consentendo così che il referendum costituzionale sia gestito, senza nemmeno cambiare un guardalinee, dalla tv colonizzata da Berlusconi.
Facendo un passo indietro comincio da questa domanda: qual è il problema che viene specificamente posto da un referendum? In questo contesto non si tratta più di descrivere un testo ma di strutturare una scelta. Perché è meglio approvare? Perché è meglio rifiutare? Questo è il quesito posto agli italiani, e questo è il quesito che il nostro cosiddetto servizio pubblico pervicacemente elude.
Pilucco tra i vari spot e filmatini che per dovere di ufficio mi sono dovuto sorbire in questi giorni. Un tema molto insistito, non a caso, è quello della riduzione del numero dei parlamentari. Il tema è popolare e gli strateghi al servizio di Sua Emittenza hanno capito che è più facile da vendere agli ignari di tutto. E così si ripete a distesa che i deputati passeranno, con la riforma, da 630 a 518 e i senatori da 313 a 252. Vero o falso? Semi-vero, e quindi semi- falso. E anzi più falso che vero. Non solo perché la sinistra ha proposto un taglio più drastico, ma anche perché ne propone l'attuazione subito mentre la destra la rinvia addirittura al 2016. Mediaset, poi, è ancora più imbrogliona. Perché nella sua animazione di questo punto le figurine dei parlamentari si trasformano in simboli dell'euro. Come per dire: votate Sì e risparmierete soldi. E questa non è una mezza verità ma una sicura falsità.
Secondo esempio: il bicameralismo perfetto (paritario). La riforma Bossi- Berlusconi lo ha eliminato. Ma lo aveva anche eliminato prima la sinistra. Sul che la Rai tace, mentre il problema dovrebbe essere di chi lo abbia sostituito peggio. Imperturbato lo spot Rai illustra così: «La riforma prevede tre tipi di leggi», norme approvate soltanto dalla Camera (alle quali però il Senato federale può proporre modifiche); secondo, norme approvate soltanto dal Senato federale (alle quali la Camera può anch'essa proporre modifiche); e infine «norme che disciplinano norme sia dello Stato e delle Regioni». Quasi tutti i costituzionalisti hanno detto che questo è un caos ingestibile. Ma questo non va detto. I vari Mimun, Mazza, Giuliana Del Bufalo, o chi per loro (non so chi confezioni queste pillole papaverine) si chiamano fuori dichiarandosi «neutrali».
Neutrali? Per carità. Un referendum è come ricorrere a un tribunale. La destra ha imposto la sua riforma, la sinistra la contesta. Nel tribunale si devono udire entrambe le parti, e poi il giudice (il demos
votante) decide. Ma il nostro referendum sta procedendo inaudita altera parte, senza contraddittorio. A me sembra incredibile, oltreché vergognoso. Eppure sino al momento nel quale scrivo il consiglio di amministrazione della Rai e il suo presidente Petruccioli hanno fatto finta di non vedere che «mamma Rai» sta disorientando gli italiani con un'informazione che è, in realtà, disinformazione.

12.6.06

La sensitiva del Trasimeno

SATIRA PREVENTIVA di Michele Serra

Cronisti e redazioni sono già a caccia del delitto dell'estate. Oltraggi al cadavere e sordidi retroscena erotici da sbattere in prima pagina prima della concorrenza. Commenta

In vista della lunga pausa politica, come ogni anno nelle redazioni dei giornali ci si sta preparando al lancio del tradizionale 'delitto dell'estate', manifestazione mediatica ormai classica nel nostro paese e gettonatissima dal pubblico balneare. Squadre specializzate di cronisti stanno già scandagliando il fondo dei canali e interrogando veggenti nella speranza di individuare prima della concorrenza un delitto particolarmente stomachevole, possibilmente con oltraggio al cadavere e sordidi retroscena erotici. Vediamo quali sono, secondo i book-maker, i crimini che hanno maggiore probabilità di diventare il tormentone preferito della prossima estate.

I fidanzatini maledetti Dopo Erika e Omar, l'ambito ruolo di baby-killer spetta a Samantha e Gilbert, undicenni della provincia di Varese. Sterminano la famiglia col tagliaerba e ne arrostiscono i resti sul nuovo barbecue. Agli inquirenti raccontano che si è trattato di uno scippo in motorino da parte di immigrati rumeni comparsi a tutta velocità nel tinello, ma non vengono creduti. Le terribili immagini della villetta della strage destano sgomento: anche il giardino è interamente perlinato. In tv dura settimane il dibattito con Paolo Crepet, Barbara Palombelli e il cuoco Vissani, che ricostruisce la scena del barbecue.

I fidanzatoni maledetti Come sopra, solo che i due assassini sono adolescenti obesi, che sterminano la famiglia (in provincia di Varese) sedendosi sopra i genitori mentre dormono.

Le bestie di Botanga Gruppo di adolescenti della provincia di Varese che supera in efferatezza le Bestie di Satana. Sostengono di prendere ordini da Botanga, il dio malvagio del video-game 'Tortura finale', ispirato alle leggende wudu e al repertorio di Mino Reitano. Danno fuoco a molti edifici pubblici, dopo aver chiuso a chiave gli occupanti, per ripulire il mondo dagli impuri e festeggiare il raduno estivo del Varese Basket. Arrestati, accusano due scippatori albanesi sostenendo che le scintille emanate dallo scappamento difettoso del motorino hanno causato gli incendi, ma non vengono creduti.

Il delitto dei sette laghi Una sensitiva è certa che sul fondo del lago di Varese c'è il cadavere di una donna. Decine di sommozzatori cercano invano nel lago per una settimana. La sensitiva spiega che deve essersi sbagliata: non è il lago di Varese, è il Trasimeno. Nuove ricerche non danno risultato. Allora la sensitiva ricorda di avere distintamente sognato il lago Balaton. E così via finché nel settimo lago indicato (il Titicaca, nelle Ande) viene ritrovato il cadavere della sensitiva: sotto accusa i sommozzatori dei Vigili del Fuoco che l'avevano inutilmente accompagnata in giro per il mondo. L'opinione pubblica è divisa tra chi chiede per gli assassini una pena esemplare e chi il conferimento di una medaglia d'oro al valore civile.

Delitto politico È il cavallo di battaglia sul quale punta il 'Corriere della sera', ferratissimo nell'intramontabile feuilleton fascisti-comunisti. La possibile trama: un ex repubblichino novantaduenne incontra un ex partigiano suo coetaneo per scrivere insieme un libro di memorie a quattro mani, che dovrebbe intitolarsi 'L'urgenza della memoria'. Purtroppo, a causa dell'età avanzata, i due non ricordano esattamente chi era fascista e chi comunista, e durante la presentazione del libro (con Paolo Mieli, Giulio Andreotti e Barbara Palombelli), nel tentativo di dividersi i ruoli, si accapigliano, cadono e battono entrambi la testa, morendo sul colpo. Di chi la colpa? Il medico legale dichiara un onorevole pareggio, ma per tutta l'estate sul 'Corriere' divampa il dibattito, con opinioni quotidiane di Emanuele Macaluso, gli eredi di Ferruccio Parri, il reggente dell'Archivio Storico Bakunin, la nipote di Trotskij, i direttori de 'l'Unità' clandestina, gli opinionisti del 'Foglio' (tutti), gli ex di Potere Operaio (tutti) e un matto convinto di essere Palmiro Togliatti. Il doppio delitto appassiona i lettori del 'Corriere' per mesi, fino a che non viene rimpiazzato da un documento esplosivo: il carteggio tra Umberto Terracini e la moglie del console sovietico a Lisbona, inspiegabilmente rimasto segreto per 75 anni. Perché?

11.6.06

CHI SI RICORDA DEL VESCOVO DI PRATO?

da www.uaar.it

Era il 12 agosto del 1956. La chiesa di papa Pacelli (Pio XII), scaglia l'anatema su due giovani di Prato che avevano avuto l'ardire di sfidare la chiesa cattolica sposandosi con il rito civile: i coniugi Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, due giovani colpevoli di essersi sposati in Comune con il rito civile, invece che in chiesa, seguendo la tradizione. Il vescovo di Prato monsignor Pietro Fiordelli definì in un'omelia i coniugi Bellandi «pubblici peccatori e concubini», come se il matrimonio civile non avesse alcun valore.
Gli "sposi di Prato" diventarono allora il simbolo della protesta laica contro le ingerenze sempre più marcate della chiesa di Roma. E il processo che ne seguì riaprì questioni che si ritenevano risolte. Il fatto che, per così dire, accese la miccia fu la lettera del vescovo Fiordelli indirizzata a don Danilo Aiazzi, responsabile della parrocchia, e pubblicata il 12 agosto 1956 sul giornale parrocchiale. Intrisa di particolare violenza, così cominciava: «Oggi, 12 agosto, due suoi parrocchiani celebrano le nozze in Comune rifiutando il matrimonio religioso. Questo gesto di aperto, sprezzante ripudio della religione è motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è matrimonio, ma soltanto l'inizio di uno scandaloso concubinato». Nella lettera si giungeva poi anche all'aperta intimidazione: «Pertanto lei, signor Proposto, alla luce della morale cristiana e delle leggi della Chiesa, classificherà i due tra i pubblici concubini e, a norma dei canoni 855 e 2357 del Codice di Diritto Canonico, considererà a tutti gli effetti il signor Bellandi Mauro come pubblico peccatore e la signorina Nunziati Loriana come pubblica peccatrice. Saranno loro negati i sacramenti, non sarà benedetta la loro casa, sarà loro negato il funerale religioso».
Fu una messa al bando in piena regola e, affinché la condanna risultasse più forte e totale, la lettera del vescovo terminava con queste incredibili parole, riesumate dai secoli più buî del Medio Evo: «Infine, poiché risulta all'autorità ecclesiastica che i genitori hanno gravemente mancato ai propri doveri di genitori cristiani, permettendo questo passo immensamente peccaminoso e scandaloso, la Signoria Vostra, in occasione della Pasqua, negherà l'acqua santa alla famiglia Bellandi e ai genitori della Nunziati Loriana. La presente sia letta ai fedeli». La violenta pastorale letta in tutte le chiese di Prato ebbe conseguenze assai gravi: l'attività commerciale del Bellandi si ridusse della metà, per non parlare degli insulti, delle lettere anonime, e di un'aggressione subita da sconosciuti che lo picchiarono con violenza.
A questo punto Bellandi e i genitori decisero di querelare il vescovo e il parroco per le offese e i danni subiti, sottolineando che «le leggi della Chiesa non possono contenere norme che autorizzino le autorità ecclesiastiche a ledere un bene del cittadino tutelato dalle leggi dello Stato». Dopo discussioni sul Diritto Canonico e Concordatario, i giudici condannarono il vescovo di Prato ad una ammenda di sole 40.000 lire, una condanna mite e compromissoria che suscitò però le vivaci proteste dei cattolici sostenute allora dal Corriere della Sera. L'indignazione in Vaticano fu enorme, la segreteria di Stato si trasformò in sala operativa e di comando, la sentenza fu denunciata come un atto illegale della magistratura che favoriva gli abusi laicisti, condannando la debolezza del Governo Italiano.
Si impartì l'ordine, via radio, a tutte le Nunziature Apostoliche Occidentali di organizzare manifestazioni di solidarietà col vescovo di Prato: a mezzanotte, il cardinale arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro informò con una telefonata il Vaticano che aveva ordinato a tutte le parrocchie di tenere per un mese i portali delle chiese parati a lutto e di suonare le campane a morto ogni giorno per cinque minuti. Tutto ciò non si potrebbe più ripetere. Erano, tra l'altro, gli anni cruciali della guerra fredda. Oggi gli italiani, ben più consapevoli dei propri diritti civili, ricorrono in crescente misura al matrimonio civile. Qualche passo avanti è stato fatto, ma la partita è tutt'altro che chiusa, e la strada del pieno e incondizionato rispetto della laicità dello Stato è ancora lunga. Il caso del cardinale Giordano e dei suoi presunti complici (1998) evidenzia ancora ai nostri giorni che la «Questione Romana» è sempre aperta; i presunti atti illegali della magistratura sono ancora ritenuti ingerenze negli «affari della chiesa», ma un fatto positivo è che oggi i laici sono emersi dalla loro solitudine intellettuale, e vari gruppi sono affiorati per contrastare e denunciare chi tende ad offuscare le pagine del codice penale con l'ombra del messaggio evangelico e delle cosiddette «opere di religione». Anche oggi, come sempre in passato, la Chiesa nulla disdegna e di tutto approfitta; e quindi non si dovrebbe mai abbassare la guardia di fronte alla sua avidità, per limitarne le pretese, veri ostacoli al progresso civile e democratico e alla laicità dello Stato